I
L’esegesi confessionale considera i testi evangelici e tutti quelli del Nuovo Testamento come se fossero «veri» per definizione, le cui singole falsità non pregiudicano la verità complessiva, che si ritiene «ispirata». Le falsità particolari vengono annoverate tra le semplici sviste o banali imprecisioni, errori involontari da parte dei copisti.
Proprio a motivo di questa sua categoricità, per tale esegesi risulta impossibile dialogare con un’esegesi laica, che per forza di cose non può vantare delle dimostrazioni ex cathedra. I ragionamenti di un’esegesi non confessionale possono essere soltanto basati sull’induzione e quindi sulla probabilità. Essi però hanno il vantaggio di essere aperti al confronto dialettico e si guardano bene dal pretendere un’adesione fideistica a un dogma indiscutibile.
Questo per dire che mettere a confronto un’esegesi confessionale con una laicista, non ha alcun senso. Quando non ci si trova d’accordo neppure sulle premesse di un qualunque discorso, si finisce solo col perdere del tempo. Oggi un vero confronto è possibile solo tra differenti esegesi di tipo non confessionale, anche perché i ragionamenti deduttivi (quelli da premesse generali indiscutibili) che fanno i credenti diventano, in ultima istanza, ripetitivi e molto poveri di contenuto. Qualunque conclusione, infatti, deve servire per loro soltanto a dimostrare la validità delle premesse del sillogismo: non deve aprire la mente a elaborare nuove riflessioni.
Con questo naturalmente non si vuol sostenere che un’esegesi confessionale, siccome non è in grado di dimostrare la validità delle premesse dei propri sillogismi, non valga nulla. Ogni esegeta deve partire da premesse che ritiene vere: che poi qualcuno le ritenga vere in senso dogmatico, mentre un altro ritenga che le proprie siano vere solo in senso probabilistico, la sostanza non cambia. I ragionamenti si fanno sempre sulla base di premesse che si vogliono dimostrare. La differenza, semmai, sta nel modo in cui si permette all’interlocutore di reagire di fronte a determinate conclusioni. Ed è noto che nessuna confessione religiosa permette al credente di avere opinioni difformi da quelle canonizzate ufficialmente.
Qui sta la vera differenza tra il dogmatismo della fede religiosa e la libertà di critica della ragione laica. Se poi uno vuole sostenere che i dogmi sono inevitabili quando si costruiscono strutture comunitarie e che la libertà di critica può permettersela soltanto un’individualità isolata, allora bisogna rispondere che una comunità religiosa basata sui dogmi, è la prima a violare la libertà di coscienza.
II
Chiunque compia una ricerca su Gesù Cristo, ovvero su tutta la documentazione del cristianesimo primitivo, e viene inevitabilmente a scontrarsi col fatto che chi ha prodotto quella documentazione aveva, come si suol dire, «fede in Gesù Cristo», non dovrebbe soltanto chiedersi fino a che punto tale documentazione possa essere considerata «storicamente obiettiva», ma anche se la suddetta «fede» debba per forza essere intesa nel medesimo senso «religioso» degli autori di quei documenti.
Di questi due aspetti cerchiamo ora di spiegare il primo, ponendoci la seguente domanda: se Cristo fosse stato un uomo «religioso», potremmo considerare «storicamente obiettiva» un’esegesi di tipo religioso, cioè confessionale? Noi tendiamo a negare sia che il Cristo fosse un credente, sia che una qualsivoglia storiografia religiosa possa essere storicamente obiettiva.
Se il Cristo è stato un «credente», solo una storiografia laica può interpretarlo adeguatamente, proprio perché qualunque fede religiosa è di per sé, a prescindere dal modo come viene vissuta e anche dalla consapevolezza che se ne possa avere, una forma di alienazione.
Posto questo, veniamo alla seconda parte del problema. È possibile che alla espressione «fede in Cristo» si possa dare una connotazione laica? Sì, è possibile, anzi bisogna farlo, soprattutto nel caso in cui si ritenga che il Cristo non sia stato una persona credente.
È compito dello storico dimostrare che al tempo di Gesù Cristo vivente la «fede» o la «fiducia» nei suoi confronti poteva manifestarsi in forme non espressamente religiose e, in particolare, che queste forme potevano anche assumere connotazioni politiche e persino politico-rivoluzionarie, cioè eversive.
Perciò anche la semplice espressione «fede in Gesù Cristo», che di regola viene data per scontata nella sua accezione religiosa, va rimessa in discussione, togliendo alla chiesa, o comunque all’esegesi confessionale, il privilegio d’avere una sorta di monopolio interpretativo.
In sintesi: il fatto che la documentazione storica del cristianesimo primitivo ci presenti un Cristo religioso non è motivo sufficiente per credere ch’egli lo fosse veramente, e questo per almeno quattro ragioni:
1. Gesù non ha scritto una sola parola;
2. l’unico documento ch’egli ci ha lasciato è la Sindone, che attesta l’esecuzione di un sovversivo politico, ritenuto (e le incredibili sevizie lo dimostrano) particolarmente pericoloso: di regola infatti i sovversivi venivano o fustigati o crocifissi, a seconda della pericolosità, mentre i sovversivi religiosi, se giudei, venivano lapidati; se invece cittadini romani, venivano decapitati, ma in tal caso dovevano esserci motivazioni politiche;
3. i documenti più antichi intorno alla sua vicenda sono stati scritti almeno mezzo secolo dopo, quando Gerusalemme era già stata distrutta e tutta la Palestina occupata dai romani, e quindi sotto il peso di un condizionamento storico che indubbiamente favoriva un’interpretazione di tipo revisionista (nella fattispecie in senso mistico) dell’operato politico del Cristo;
4. se vogliamo considerare le lettere di Paolo come fonte ispirativa dei vangeli, allora bisogna precisare ch’esse propagandano un Cristo del tutto spoliticizzato, avulso dalle problematiche della Palestina del suo tempo. Il Cristo di Paolo è per così dire decontestualizzato, privo di riferimenti spazio-temporali.
Il Paolo che si convertì sulla strada di Damasco, si considerava, inizialmente, un seguace di Pietro (cioè credente nell’idea di resurrezione del Cristo e di una imminente parusia trionfale), e lo restò fino a quando, constatata l’assenza di tale parusia (a favore del nazionalismo ebraico), se ne distaccò dopo l’incidente di Antiochia, rinviando alla fine dei tempi la resa dei conti, cioè il cosiddetto «giudizio universale». Questa idea di Paolo fu condivisa però dall’ultimo Pietro.
Detto questo, torniamo alla prima delle quattro ragioni e chiediamoci: perché Cristo, che sicuramente aveva tutti i mezzi per poterlo fare (e un’importante tradizione ebraica alle spalle), scelse di non scrivere una sola parola? È difficile pensare che questo comportamento non sia stato dettato da una scelta consapevole.
Per rispondere a tale domanda dovremmo porcene un’altra, dando per scontato che avesse lasciato scritto qualcosa di suo pugno: se l’avesse fatto, gli storici avrebbero davvero potuto avere notizie più obiettive su di lui? Oppure dovremmo arrivare ad ammettere che l’unica condizione per poter avere notizie più obiettive su di lui sarebbe stata quella che il suo tentativo rivoluzionario fosse riuscito? In tal caso infatti i suoi discepoli avrebbero sicuramente avuto meno motivi per mistificarlo.
Va detto tuttavia che anche nel caso in cui il Cristo avesse scritto qualcosa di suo pugno o che la rivoluzione avesse avuto buon esito, nulla avrebbe potuto impedire agli storici di dare opposte interpretazioni a medesime fonti.
Non è neppure da escludere che, se anche la rivoluzione fosse riuscita e Cristo fosse morto serenamente di vecchiaia dopo aver scritto le proprie memorie, i suoi successori, volendo, avrebbero potuto ribaltare tutte le sue conquiste e tutte le interpretazioni ortodosse che se n’erano date. Cose di questo genere sono comunissime lungo la storia. Lo stalinismo, p.es., s’impose come l’erede più coerente del leninismo. Il fascismo di Mussolini s’affermò come tentativo di realizzare, dal punto di vista della piccola borghesia, gli obiettivi rivoluzionari del socialismo.
La scelta di non scrivere nulla è dipesa probabilmente dalla convinzione che la scrittura, ai fini della verità storica, non serve a niente. La sua è stata una scelta nettamente anti-ebraica. Peraltro, immaginiamoci che possibilità avrebbe avuto il Cristo, nel caso in cui avesse lasciato dei testi scritti, di non vederseli manipolati una volta che il suo tentativo eversivo fosse fallito. Praticamente nessuna, tanto più che ai suoi tempi i testi erano scritti a mano e circolavano in poche versioni, per lo più a disposizione della classe dirigente, che li leggeva a un pubblico che si limitava ad ascoltare.
Sono possibili manipolazioni persino oggi, con testi stampati e prodotti in migliaia di copie: figuriamoci cosa si sarebbe potuto fare allora. Oggi la manipolazione avviene in tanti modi, del tutto diversi da quelli di duemila anni fa: basti pensare a tutti gli ostacoli, se non impedimenti veri e propri, che esistono nel far circolare una pubblicazione, alla sua mancata segnalazione nei premi prestigiosi, al privilegio di recensirla che hanno i pochi addetti all’informazione pubblica, ai costi eccessivi di stampa e diffusione e pubblicità, al fatto che una società basata prevalentemente sull’informazione audiovisiva non favorisce la diffusione della lettura, al fatto che i media, di volta in volta, impongono all’attenzione dell’opinione pubblica determinati argomenti e non altri.
Duemila anni fa fu sufficiente lasciar credere che la tomba vuota andava interpretata come «resurrezione di un morto» per ottenere un’intera documentazione storica falsificata sull’evento-Gesù. Non esiste neppure un testo del Nuovo Testamento o del cristianesimo primitivo che metta in discussione questa fondamentale tesi mistica, e tale unanimismo ha indotto molti storici a credere che l’avvenimento in questione sia davvero accaduto.
Se si fosse partiti subito dal presupposto che, nella predicazione del Cristo, qualunque aspetto favorevole allo sviluppo della fede religiosa va considerato spurio, cioè in sostanza aggiunto successivamente alla sua predicazione, prima in forma orale poi scritta, noi ci saremmo risparmiati la fatica di cercare dei criteri con cui stabilire, con buona approssimazione, la storicità di ciò che Cristo può aver detto o fatto.
Infatti, qualunque criterio che non parta da questo presupposto ha un’efficacia euristica ed ermeneutica prossima allo zero. Facciamo solo due esempi. Sulla base del criterio della molteplice attestazione si sostiene che il Cristo abbia predicato il regno di «dio» o dei «cieli». In realtà è tutto da dimostrare che il regno predicato dal Cristo fosse davvero di «dio» e non dell’«uomo», fosse dei «cieli» e non della «terra».
Questo per dire che se, in via preliminare, non ci s’intende sul significato delle parole, è impossibile cercare di stabilire dei criteri scientifici. E, stante l’attuale documentazione religiosa su Cristo, quel che al massimo possiamo cercare di fare è comprendere in che senso i suoi seguaci intendevano la parola «regno» dopo la distruzione di Gerusalemme, dopo la sconfitta della guerra giudaica contro Roma. La storia del cristianesimo primitivo è soltanto la storia delle origini dell’interpretazione mistificata che si diede (anzitutto tra i suoi stessi seguaci) dell’operato del Cristo e che ad un certo punto diventò dominante.
Ora prendiamo un esempio che, secondo molti esegeti, soddisfa il criterio dell’imbarazzo: il battesimo di Gesù. Stando a coloro che ne sostengono la storicità, tale evento sarebbe attendibile, in quanto col passare del tempo si è cercato di ridurne l’importanza o addirittura di tacerlo, come risulta in quella linea canonica che va dal protovangelo di Marco a Giovanni. In realtà quell’evento non è mai accaduto, e non perché un «figlio di dio» (consapevole di esserlo) non poteva essere battezzato da un uomo, quanto perché il Cristo politico non poteva ritenere possibile che con un battesimo di penitenza si sarebbe potuto risolvere il problema della corruzione della classe sacerdotale che gestiva il Tempio.
Nei Sinottici il battesimo di Gesù viene messo bene in evidenza semplicemente perché nell’ambito dell’operazione falsificatoria (in senso mistico) operata nei confronti del Cristo (il quale aveva rotto i ponti col Battista sin dal momento dell’epurazione del Tempio), i cristiani poterono riprendere i rapporti con la corrente essenico-battista, dando ad essi una valenza esclusivamente religiosa, sulla base di un compromesso molto preciso: i battisti avrebbero considerato Gesù l’ultimo messia e l’unigenito figlio di dio, mentre i cristiani avrebbero considerato Giovanni Battista il primo che ebbe consapevolezza di questa particolare identità del Cristo. La conclusione del patto fu che i cristiani avrebbero adottato il battesimo essenico come rito di iniziazione cristiana, in cui il convertito non si limita a pentirsi dei propri peccati, ma crede anche che l’unica salvezza possibile proviene dalla divino-umanità del Cristo.
Nel quarto vangelo questa falsificazione ha dovuto fare i conti con una versione originaria dei fatti che squalificava il battesimo sul piano politico, ritenendolo del tutto insufficiente per la realizzazione del regno. Di qui la defezione dei discepoli di spicco dalla comunità del Precursore.
Di questi esempi se ne possono fare a centinaia, ma non ne vale la pena. Cercare di stabilire dei criteri di verificazione all’interno di testi mistificati non ha alcun senso. L’unica cosa che si può fare è soltanto quella di cercare di capire i motivi per cui sono nate certe falsificazioni, ovvero che cosa di vero esse possono aver rimosso o manipolato.
III
Perché è da così poco tempo che si mettono in discussione i vangeli e si tenta di elaborare un’interpretazione alternativa della vita di Gesù?
Indubbiamente nel corso di duemila anni di storia del cristianesimo sono esistite persone e movimenti che si sono serviti dei vangeli o della figura di Gesù per contestare, anche molto duramente, l’idea cristiana di «Chiesa di stato» e di «Stato della chiesa». Tuttavia l’odierna esegesi sta andando oltre questi tentativi.
Da un lato, infatti, si afferma che il Gesù dei vangeli, per come viene descritto, non può essere esistito (vedi p.es. la storiografia mitologistica, di derivazione positivistica); dall’altro si arriva a dire che, se anche fosse esistito, doveva essere molto diverso da come è stato raccontato dagli evangelisti (vedi p.es. la storiografia storicistica).
Perché dunque si è arrivati a una posizione del genere? La risposta può essere una sola: la lotta politica contro la Chiesa di stato e lo Stato della chiesa, se ha indubbiamente reso più autentica la fede religiosa, ha, nondimeno, favorito notevolmente lo sviluppo di idee laicistiche. Una cosa, infatti, è lottare contro gli abusi della fede restando all’interno della chiesa o creando un movimento ecclesiale alternativo; un’altra è quella di rinunciare a qualunque esperienza religiosa, schierandosi apertamente dalla parte dell’agnosticismo o dell’ateismo.
In tal senso se è possibile convenire sul fatto che gli esegeti liberali di matrice protestantica hanno contribuito enormemente a smitizzare la figura evangelica del Cristo (si pensi soprattutto a Rudolf Bultmann); quelli dichiaratamente laicisti hanno portato la riflessioni protestantiche a conclusioni molto più radicali e sicuramente molto più vicine alla realtà storica della Palestina di duemila anni fa.
Gli esegeti protestanti, infatti, se anche arrivavano ad accettare l’idea di un Cristo politicamente sovversivo, disposto a combattere contro le legioni romane e contro la corrotta casta sacerdotale del Tempio, non arrivavano mai ad accettare l’idea di un Cristo ateo. Molti di loro erano (e sono) docenti universitari, accademici, insigni studiosi impegnati in case editrici confessionali: avevano (e hanno) delle posizioni «teologiche» da difendere. Ecco perché non ci si deve fare tanti scrupoli se, di fronte al miglior esegeta confessionale, si finisce col preferire un mediocre esegeta laicista.
Per fortuna i tempi sono sufficientemente maturi per poter compiere, in tutta tranquillità, una scelta del genere. Anzi, son così maturi che un dialogo, per dirsi proficuo, è meglio farlo solo con gli esegeti a-confessionali. Con quest’ultimi, infatti, si può andare oltre la semplice discussione, il mero confronto di idee contrapposte: si può pensare di approfondire insieme i punti oscuri, senza dover concedere nulla al misticismo.
Il che, ovviamente, non vuole affatto dire che un’interpretazione laicistica non possa essere tendenziosa. Basta vedere con quanta ostinazione taluni esegeti cerchino di scaricare tutte le responsabilità della morte di Gesù sui Romani, sostenendo che il ruolo di primo piano attribuito dai vangeli ai Giudei è stato inventato dai cristiani.
IV
I testi antichi dedicati a Gesù Cristo sono tantissimi, molti di più di quelli scritti su Cesare o Alessandro Magno, eppure nessuno di essi, nel suo insieme, ci dice qualcosa di «umanamente accettabile».
Se prendiamo in esame i cosiddetti «apocrifi», dobbiamo dire che sono ancora più fantasiosi di quelli canonici. Il che fa pensare che i redattori degli apocrifi avessero come modello di riferimento proprio i testi che nel quarto secolo verranno definitivamente codificati (o almeno erano dipendenti dalla versione dei fatti che prima Pietro, poi Paolo, diedero della tomba vuota).
Per trovare qualcosa di «ragionevole», bisogna concentrare l’attenzione su singoli aspetti, il più delle volte d’importanza marginale agli occhi tendenziosi dei redattori. Questo per dire che è proprio la prospettiva con cui essi guardano le cose ad essere falsata.
Non serve a nulla limitarsi a trovare le interne contraddizioni ai singoli vangeli o quelle a loro trasversali, al fine di poter dire che non sono fonti attendibili. I vangeli sono tendenziosi in sé e per sé, a prescindere dalle loro antinomie. Lo sarebbero anche se fossero perfettamente coerenti; anzi, se fossero nati così, la certezza della loro tendenziosità sarebbe stata addirittura maggiore, proprio perché sarebbe aumentato il sospetto di una certa artificiosità.
Quello che l’esegeta deve cercare di capire è il motivo della tendenziosità e come essa s’è venuta formando.
Cerchiamo di spiegare con due esempi la necessità di questo impegno ermeneutico. In tutti i vangeli Pietro appare come un apostolo che non riesce sempre a comprendere ciò che Cristo dice o vuole. Appare come un ebreo politicizzato, mentre la rappresentazione che i cronisti danno di Gesù è quella di un mistico. Pietro fa delle figure meschine; arriva persino a negare di conoscere il suo maestro; ma poi si pente, e il lettore lo scusa, lo accetta ugualmente come persona «umana», che può anche sbagliare molte volte, ma non si dispera come Giuda. In poche parole sembra che sia capace di «autocritica». Eppure se c’è una cosa che nei vangeli manca è proprio l’autocritica. L’impostazione generale che hanno è sempre quella di giustificare, in chiave mistica, il fallimento dell’insurrezione nazionale contro Roma e contro il Tempio.
Perché tutti i redattori si comportano così? Il motivo è molto semplice. I redattori, generalmente, sono ebrei che odiano altri ebrei. Non a caso tutti i vangeli sono profondamente antisemitici. Se avessero potuto mistificare completamente la realtà dei fatti, avrebbero scritto che furono i Giudei a crocifiggere Gesù, o quanto meno a eseguire una qualche sentenza di morte (lapidazione, rogo, decapitazione, strangolamento… quelle tipiche della loro civiltà). La cosa più importante che hanno potuto fare è stata quella di attribuire ai soli Giudei la decisione della condanna a morte, facendo passare i Romani per dei semplici esecutori, i quali, se fosse dipeso da loro, l’avrebbero liberato, non riconoscendo in Gesù alcun elemento politico eversivo.
Il movimento nazareno post-pasquale, al seguito del Gesù crocifisso, non si è voluto assumere alcuna responsabilità riguardo al fallimento dell’insurrezione nazionale, in quanto ha preferito scaricare tutte le colpe sui Giudei e soprattutto sulla loro classe dirigente, sadducea o farisaica che fosse. Tale movimento (che poi si chiamerà «cristiano», per voler rompere col proprio passato) ha voluto fare della tomba vuota il perno attorno a cui far ruotare la propria diversità dal giudaismo tradizionale. Cioè non è stato capace di realizzare un patto politico con cui proseguire la strategia rivoluzionaria del Cristo. Si è dato per scontato, in forza della tomba vuota, che il Cristo sarebbe tornato molto presto e in maniera gloriosa. Han fatto prevalere considerazioni di tipo mistico su altre di tipo politico.
Il principale responsabile di tale travisamento dei fatti è stato proprio Pietro, i cui atteggiamenti contraddittori, umanamente comprensibili, descritti nei vangeli, risultano del tutto insignificanti rispetto alla volontà di non impegnarsi in un progetto politico rivoluzionario successivo alla morte di Gesù. È difficile quindi sostenere che l’unico traditore del movimento nazareno sia stato Giuda.
Questo è solo un piccolo esempio per cercare di capire che spesso ci si avvicina di più alla verità leggendo i vangeli in maniera rovesciata rispetto a come si presentano.
Vediamone ora un altro. Nel vangelo di Matteo vien fatto dire a Gesù, di fronte a Pietro che ha appena staccato un orecchio a un servo del sommo sacerdote Anania, mentre la turba armata era entrata nel Getsemani per catturarli tutti: «Rimetti la spada nel fodero. Pensi forse che non potrei chiamare dodici legioni di angeli in mio soccorso?» (26,53).
Dicendo questo, Matteo non si rendeva conto di una cosa, che se anche Gesù fosse stato una persona sovrumana, come viene descritta nei vangeli, una frase del genere non avrebbe mai potuto dirla. Perché? Semplicemente perché con essa, proprio nel momento in cui avesse affermato la propria identità divina, avrebbe negato, ipso facto, quella umana. Qualunque cosa venga fatta dire a Gesù che abbia un sapore mistico, nega, sic et simpliciter, la libertà umana (di credere o di non credere). È quindi relativamente facile scoprire dove i vangeli mentono. Il problema sta nel capire perché e come lo fanno.
Nel caso in oggetto la motivazione è lo stesso Matteo a offrirla, sulla scia della tesi marciana, secondo cui Gesù «doveva morire». Un uomo che risorge dopo morto, avrebbe potuto evitare la croce. Se non l’ha fatto, è stato perché non voleva farlo, e non voleva perché non poteva, e non poteva perché doveva rispettare un patto preso con Dio.
lei scrive: “Dicendo questo, Matteo non si rendeva conto di una cosa, che se anche Gesù fosse stato una persona sovrumana, come viene descritta nei vangeli, una frase del genere non avrebbe mai potuto dirla. Perché? Semplicemente perché con essa, proprio nel momento in cui avesse affermato la propria identità divina, avrebbe negato, ipso facto, quella umana” E perché? La forza di Cristo è invece proprio di essere una persona umana e divina insieme, ed è straordinario che lei finga di non saperlo
Il problema è che la divinità del Cristo è assolutamente indimostrabile. Non lo dimostrano né le guarigioni, né i miracoli, né la tomba vuota, né la sindone, né tutte quelle pericopi in cui si fa intervenire il Padreterno. Non era un argomento all’ordine del giorno quando lui era in vita, e lo è diventato solo dopo la sua morte. Si è partiti da un’interpretazione forzosa della tomba vuota come “resurrezione” e, di lì in poi, si è finito col costruire una persona mitologica, che compie cose sovrumane. Se Gesù aveva una natura divina, l’abbiamo tutti, perché se c’è un esclusivismo in questo campo, si finisce col violare la libertà umana di coscienza, la quale non potrebbe sopportare il rapporto con un’entità in grado di leggerle il pensiero, di prevedere ogni sua mossa, ecc.