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Storia di Israele

Dal primo censimento romano alla distruzione di Gerusalemme

La stragrande maggioranza delle notizie che abbiamo della Palestina del primo secolo proviene dai testi di Giuseppe Flavio, un militare ebreo che al tempo della guerra giudaica del 66-74 d.C. pas­sò dalla parte dei romani e contribuì alla disfatta del proprio popolo. A titolo di favore per i servizi resi l’imperatore Vespasiano gli permi­se di raccontare la storia di quelle vicende, cosa che egli fece pub­blicando due volumi: Guerra Giudaica (Mondadori 1982) e Antichità Giudaiche (Utet 2006)

È evidente che, per questa ragione, Giuseppe Flavio non può essere considerato uno storico attendibile, sia perché odiava a morte il partito zelota, che fu il protagonista principale di quella guer­ra, sia perché, per poter pubblicare i propri testi, non poteva mettere i romani in cattiva luce, almeno non più di quanto gli permettesse di fare il suo rapporto servile nei confronti di Roma.

D’altra parte anche gli Atti degli apostoli non possono essere considerati un testo storicamente affidabile, anzi, per molti versi, lo sono ancor meno di quelli di Flavio. I motivi sono semplici: i cristiani avevano in odio i capi giudei per aver fatto giustiziare il loro messia; inoltre il cristianesimo petro-paolino si poneva in netta antitesi all’e­braismo in generale, non avendo alcun interesse a realizzare una li­berazione politico-nazionale della Palestina. Peraltro tutte le affer­mazioni di Flavio riguardanti il coinvolgimento di Cristo e del suo mo­vimento alla lotta di liberazione nazionale, sono state in varie manie­re interpolate da redattori cristiani.

Questa ricostruzione sintetica si è avvalsa soprattutto del te­sto di S. G. F. Brandon, Gesù e gli Zeloti, Rizzoli, Milano 1983.

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Secondo il Vangelo di Luca la nascita di Gesù viene a coinci­dere col censimento ordinato dai romani il 6 d.C., allorché la Giudea venne incorporata per la prima volta entro il loro impero. Il censi­mento doveva servire per la ripartizione dei tributi, cosa che porterà, di lì a poco, alla nascita del partito di opposizione anti-romana degli zeloti. Secondo invece il Vangelo di Matteo, Gesù sarebbe nato po­chi anni prima della morte di Erode il Grande, che avvenne il 4 a.C.: una data importante per il popolo ebraico, in quanto dal 129 a.C., dopo essersi liberati, grazie ai Maccabei, della dominazione seleuci­de, gli ebrei avevano goduto dell’indipendenza nazionale.

Erode era stato odiato dagli ebrei per la sua origine idumea e per il suo filo-paganesimo, e tuttavia, sotto il suo regno, la Palesti­na non era stata costretta a pagare il tributo a un governo straniero né a vedere truppe straniere sul proprio territorio. Ma Erode non po­teva decidere, senza il consenso imperiale romano, chi avrebbe po­tuto succedergli. Infatti suo figlio Archelao dovette recarsi a Roma e, proprio in quella occasione, gli ebrei si ribellarono alle truppe roma­ne del comandante Sabino, ch’erano state inviate per mettere al si­curo l’ingente patrimonio dello stesso Erode. Gli ebrei, soprattutto i farisei e gli zeloti, volevano piena indipendenza nazionale, anche dagli erodiani.

Uno dei capi di questa sommossa era stato Giuda, figlio di Ezechia, che aveva occupato il palazzo erodiano di Sepphoris in Galilea, impadronendosi dei beni e delle armi. E come Ezechia era stato giustiziato, nel 47 a.C., dal giovane Erode, quando ancora que­sti era al servizio di suo padre Antipatro, prefetto del palazzo di Irca­no, ultimo sovrano asmoneo, così Giuda venne fatto giustiziare, in­sieme ad altri duemila (crocifissi), dal governatore romano della Si­ria, Varo, accorso in aiuto delle truppe romane stanziate a Gerusa­lemme, nel 4 d. C. Poco prima di morire, Erode aveva fatto giustizia­re due farisei, Giuda e Mattia, che avevano incitato il popolo a di­struggere la grande aquila dorata che il re aveva fatto innalzare sulla porta principale del Tempio di Gerusalemme.

L’imperatore Augusto decise di porre la Giudea e la Samaria sotto il diretto controllo di Roma, di cui appunto il censimento del 6 d.C. doveva costituire eloquente dimostrazione, dopo che aveva constatato quanto Archelao, nominato etnarca di quei territori nel 4 a.C. (fino al 6 d.C.), non fosse all’altezza della situazione.1 D’altra parte Roma temeva enormemente che tra le due province di Egitto e Siria fosse presente un territorio, quale appunto la Palestina, in stato di aperta ribellione.

L’incarico tecnico del censimento venne affidato a P. Sulpi­cio Quirinio, legato della Siria, cui veniva ora annessa la provincia di Giudea e Samaria. Procuratore di Giudea e Samaria era però Copo­nio, che governava quella provincia con pieni poteri, ivi incluso quel­lo delle sentenze capitali.

La reazione degli ebrei al censimento fu immediatamente ostile: un certo Giuda di Galilea (il Galaunita, della città di Gamala), appoggiato da un fariseo chiamato Saddok, provocò una rivolta, no­nostante il sommo sacerdote Joazar cercasse di dissuaderli. Due fi­gli di questo Giuda, Menahem e Eleazar, diverranno capi della gran­de guerra anti-romana che scoppierà nel 66 d.C. Questi rivoltosi fa­cevano parte del partito degli zeloti, che rappresentava l’ala progres­sista del fariseismo. Alcuni di questi zeloti si ritroveranno nel partito nazareno del Cristo (Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13).

Il partito zelote era radicale, estremista, teocratico, non di­sposto a transigere sui princìpi e non alieno all’uso di strumenti terro­ristici e di guerriglia urbana: molto difficilmente un episodio come quello della conversione di Levi-Matteo al discepolato del Cristo, avrebbe potuto trovare posto negli «Annali» delle loro attività. Eppu­re proprio la presenza di elementi zelotiani all’interno del partito na­zareno deve farci pensare che dopo la sconfitta degli zeloti, in occa­sione del censimento, chi ne raccolse l’eredità politica fu proprio quello del Cristo, anche se lo stesso partito zelote si riprenderà pro­prio dopo il fallito tentativo insurrezionale dei nazareni (una parte del movimento zelote confluirà anche tra gli Esseni).

Intorno al 9 d.C. a Coponio successe Marco Ambibulo, cui seguì Annio Rufo (12-15 d.C.). Intanto Quirinio, legato di Siria, ave­va deposto il sommo sacerdote Joazar, contro il quale il popolo si era rivoltato, e aveva nominato Ananus (suocero del famoso Caifa dei vangeli) suo successore. L’interferenza politica dei romani in questa prestigiosa carica religiosa era cosa del tutto inedita per i giu­dei. Il successivo procuratore, Valerio Grato (15-26 d.C.), deporrà e nominerà non meno di quattro sommi sacerdoti, assegnando infine la carica a quel Caifa che risulterà protagonista principale dell’esecu­zione del Cristo. Questo spiega il motivo per cui il clero del Tempio era caduto enormemente in discredito presso le popolazioni politica­mente impegnate a lottare contro Roma (non a caso durante la cac­ciata dei mercanti dal Tempio, da parte del Cristo, nessuno interven­ne per fermarlo).

Poi fu la volta di Pilato, nominato prefetto della Giudea nel 26 d.C.: vi rimase in carica fino al 36, cioè fin qualche anno dopo la morte del Nazareno. Pilato, che risiedeva a Cesarea Marittima, non era mai piaciuto ai giudei, perché troppo arrogante. Il primo inciden­te diplomatico, quando egli tentò di introdurre a Gerusalemme, di notte, le insegne dell’imperatore, che i romani già consideravano alla stregua di un dio, era avvenuto proprio all’inizio del suo mandato.

I giudei erano ormai prossimi alla rivolta quando Pilato prefe­rì rimuovere le immagini profane per evitare il bagno di sangue che ne sarebbe conseguito. È però probabile che Pilato avesse ordito una provocazione del genere, ch’era senza precedenti, su suggeri­mento di Seiano, il potente favorito di Tiberio, noto per le sue posi­zioni antisemite.

La seconda provocazione di Pilato è relativa al momento in cui fece esporre nel palazzo di Erode a Gerusalemme degli scudi dorati che recavano i nomi dell’imperatore e delle persone che gli avevano dedicato quegli scudi (probabilmente nell’iscrizione vi era un riferimento alla «divinità» dell’imperatore). I nobili della città prote­starono presso l’imperatore Tiberio che, per evitare incidenti, ordinò di rimuovere gli scudi contestati e di farli appendere nel Tempio di Augusto a Cesarea.

Un terzo incidente lo si ebbe quando Pilato, senza consulta­re le autorità civili ebraiche, impiegò parte del sacro tesoro del Tem­pio di Gerusalemme per finanziare la costruzione di un acquedotto che avrebbe portato acqua nella città: scoppiarono delle rivolte che vennero soffocate nel sangue dai romani.

Il quarto episodio riguardò lo stesso Gesù Cristo, preceduto dall’arresto di alcuni rivoltosi coinvolti in un’azione eversiva, di cui v’è traccia persino nei vangeli, pur sempre molto reticenti nel mostrare gli aspetti politici del Nazareno. Non dimentichiamo che Gesù fu cro­cifisso con altri due sediziosi e barattato con un altro ancora (Barab­ba). La data varia dal 29 al 33 d.C.

Infine, sotto la direzione di un loro leader, alcuni samaritani tentarono di radunarsi sul monte Garizim, a loro sacro, probabilmen­te per preparare una rivolta contro i romani. Pilato prevenne la sedi­zione inviando l’esercito: molti samaritani vennero uccisi e i capi del­la rivolta furono giustiziati. Ne seguì una formale protesta dei sama­ritani presso Vitellio, all’epoca legato della provincia romana della Si­ria, che diede loro ascolto e rimandò Pilato a Roma, sostituendolo con Marcello.

Rimosso Pilato dal suo incarico, Vitellio si recò a Gerusa­lemme durante una Pasqua, forse quella del 36 d.C., per ripristinare l’ordine nella nazione dei giudei. L’unica cosa che fece però fu quella di sostituire il sommo sacerdote Caifa con Jonathan ben Anano (36-37). L’anno dopo, per ordine di Tiberio, radunò le truppe a Tole­maide in vista di una spedizione punitiva contro Aretas, re di Petra. E su richiesta dei giudei evitò di far passare le proprie truppe attra­verso la Giudea. Tuttavia, quando tornò a Gerusalemme depose an­che il sommo sacerdote Jonathan, sostituendolo con Theofilo ben Anano (37-41).

Intanto giunse notizia della morte dell’imperatore Tiberio: Vi­tellio impose agli ebrei un giuramento di fedeltà a Gaio (Caligola), nuovo imperatore (37-41 d.C.), che diede prova del suo apprezza­mento per l’appoggio ottenuto, per la successione a Tiberio, da parte di Agrippa I, nipote di Erode il Grande, permettendo a quest’ultimo, nel 39 d.C., di ottenere la tetrarchia ch’era stata di Filippo, morto nel 34 d.C., insieme col titolo di re e, successivamente, anche la tetrarchia di Erode Antipa, deposto ed esiliato da Gaio in Spagna.

La luna di miele tra Roma e gli ebrei durò tuttavia molto poco. A Jamnia, sapendo che l’imperatore era ossessionato dall’idea di far accettare politicamente la propria divinità, i gentili, per ingra­ziarselo, fecero erigere un altare per offrirgli dei sacrifici. Gli ebrei della città reagirono immediatamente distruggendolo. Per vendicarsi Gaio ordinò al legato di Siria, Petronio, di erigere una colossale sta­tua dorata di Zeus all’interno del Tempio di Gerusalemme, com’era stato fatto nel 167 a.C. dal re Antioco Epifane.

Petronio si recò in Giudea, nel 39-40 d.C., con un esercito di due legioni e un forte contingente di truppe ausiliarie. Intanto Agrip­pa era riuscito a convincere Gaio a desistere da un proposito che avrebbe provocato un massacro generale. In cambio Gaio chiedeva che le comunità di gentili presenti in Palestina potessero erigere tranquillamente qualunque altare pagano. Il suo improvviso assassi­nio scongiurò la ribellione armata dei giudei.

Agrippa era abbastanza stimato dalla popolazione ebraica e persino dai romani, tanto che il nuovo imperatore Claudio, per pre­miarlo della fiducia mostrata contro le follie di Caligola, gli concesse di governare anche in Giudea, il che lo portava ad amministrare un’estensione territoriale equivalente a quella dell’antico regno di Erode il Grande, anche se sotto l’egida di Roma. Claudio intanto, nel 41 d.C., fu costretto a proibire l’immigrazione di molti giudei verso Alessandria, fuggiti da Israele per l’insostenibilità della situazione fi­scale e il processo di concentrazione della proprietà.

Stando agli Atti degli apostoli, Agrippa fece assassinare Gia­como, fratello di Giovanni, e incarcerare Pietro, che fu poi fatto eva­dere. Prima di questi fatti era stato eliminato Stefano, che accusava apertamente i sacerdoti giudei di aver fatto giustiziare Gesù. Pietro fu sostituito, alla guida della comunità cristiana di Gerusalemme, dal fratello di Gesù, Giacomo detto «il Minore» nel Nuovo Testamento.

Avendo intenzione di consolidare il proprio regno e temendo che i romani potessero rimuoverlo in qualunque momento, Agrippa chiedeva un appoggio esplicito da parte delle autorità giudaiche. E per questo in due occasioni si rese sospetto alle autorità romane. La prima quando tentò di ricostruire le mura settentrionali di Gerusa­lemme, da cui erano entrate le truppe sia di Pompeo nel 63 a.C. che di Erode e Sossio nel 37 a.C. (e da dove entreranno anche quelle di Tito nel 70 d.C.): gli venne impedito quando Vibio Marso, legato di Siria, informò del pericolo l’imperatore Claudio. La seconda occasio­ne fu quando invitò cinque principi, vassalli di Roma, ad una riunione a Tiberiade, per rafforzare delle intese politiche nelle province orien­tali dell’impero.

Agrippa morì improvvisamente nel 44 d.C., quando il figlio era ancora troppo giovane per succedergli: il che indusse Claudio ad amministrare direttamente tutti i suoi territori. Solo qualche anno dopo alcune parti del regno di Agrippa, che non riguardavano la Giu­dea, vennero assegnate al figlio Agrippa II.

La seconda amministrazione romana fu un disastro per le sorti della popolazione ebraica. Il procuratore Cuspio Fado (44-46 d.C.), il primo succeduto ad Agrippa I, fece giustiziare Tholomaios, che aveva provocato disordini ai confini con la Nabatea e l’Idumea. Poi fu la volta di Theudas, un predicatore politico che invitava i giu­dei ad attraversare il Giordano per rifugiarsi in una zona desertica della Transgiordania, da dove si sarebbero organizzati in funzione anti-romana: fu catturato e decapitato, e con lui molti altri.

Sotto il procuratore (ebreo apostata) Tiberio Alessandro (46-48 d.C.), succeduto a Fado, vennero crocifissi due rivoltosi zeloti, Si­mone e Giacomo (o Giacobbe), figli di Giuda il Galileo. Sempre al tempo di Tiberio Alessandro ci fu in Giudea una grave carestia, che per due anni ebbe conseguenze disastrose per buona parte della popolazione, non più in grado di pagare le tasse; e sotto il suo successore, Ventidio Cumano (48-52 d.C.), si ebbe una nuova strage di giudei durante le feste di Pasqua, in prossimità del Tempio di Gerusalemme, semplicemente perché gli ebrei radunati nei cortili per il culto reagirono immediatamente a un gesto osceno fatto da un soldato romano di servizio sul tetto del portico del Tempio.

Il secondo incidente si ebbe quando fu assalito e depredato un servitore dell’imperatore sulla strada che conduceva a Beth-oron. Il procuratore inviò truppe a saccheggiare i villaggi vicini, arrestando­ne i capi. Durante le operazioni un soldato romano bruciò una copia della Torah. Gli ebrei furono così furiosi che Cumano si risolse a giu­stiziare il soldato.

Il terzo incidente segnò la fine del mandato palestinese di Cumano. Tutto ebbe inizio con l’uccisione di alcuni galilei, in viaggio verso Gerusalemme, da parte degli abitanti di un villaggio samarita­no. I galilei chiesero vendetta a Cumano, che però non fece nulla. Allora i galilei chiesero aiuto ai giudei e questi si misero al seguito di un certo Eleazar, figlio di Deinaios, del partito zelota, che riuscì a massacrare alcuni samaritani. A questo punto Cumano intervenne con la forza, eliminando molti rivoltosi giudei. I samaritani però si ri­volsero a Quadrato, legato di Siria, perché svolgesse un’indagine. Questi fece giustiziare vari giudei catturati da Cumano e inviò a Roma in catene i sommi sacerdoti Gionata e Ananias, e il coman­dante del Tempio, Ananus. Grazie all’intercessione di Agrippa, que­sti ebrei ottennero un verdetto favorevole; viceversa Cumano fu esi­liato e un suo tribuno giustiziato in pubblico.

L’imperatore Claudio pensò di sostituire il procuratore Cu­mano con l’ex-liberto Antonio Felice (52-60 d.C.), il quale scandaliz­zò subito gli ebrei, sposando Drusilla, sorella di Agrippa, dopo aver costretto al divorzio il marito di lei. Subito dopo tentò di stroncare i numerosi movimenti messianici di quel periodo, e riuscì anche a cat­turare Eleazar, inviandolo a Roma, e a far crocifiggere molti zeloti al suo seguito, che i romani peraltro cominciarono a chiamare col nome di «sicari», in quanto eliminavano clandestinamente con una spada corta, in occasione di feste religiose, quegli ebrei di alto rango che collaboravano coi romani. Fu così p. es. che uccisero il sommo sacerdote Gionata.2

Al tempo di Felice un pericoloso sovversivo di origine egizia­na aveva raccolto una turba di circa quattromila persone con cui si preparava ad entrare con forza a Gerusalemme dal Monte degli Uli­vi. Felice non si lasciò prendere di sorpresa e riuscì a uccidere quat­trocento rivoltosi e a farne prigionieri altri duecento. L’egiziano riuscì a fuggire e i suoi seguaci continuarono a incitare i giudei a far guerra contro i romani.

Quando Nerone subentrò a Claudio, il procuratore Antonio Felice fu sostituito con Porcio Festo (60-62 d.C.), il quale si trovò su­bito in urto coi giudei, non avendo fatto nulla per impedire ad Agrip­pa II di costruire un palazzo che dominava dall’alto il Tempio di Ge­rusalemme. La cosa si risolse grazie alla mediazione dell’imperatrice Poppea, e Nerone sostituì Festo con Lucceio Albino (62-64 d.C.).

Lucceio non era ancora arrivato in Giudea, quando Agrippa II aveva nominato il sadduceo Ananus sommo sacerdote, il quale, senza chiedere alcuna autorizzazione ai romani, convocò il Sinedrio al fine di processare e far lapidare Giacomo (il Giusto), fratello di Gesù Cristo e capo della comunità cristiana di Gerusalemme. L’azio­ne suscitò le proteste di molti uomini influenti della città e Albino, al suo arrivo, sostituì immediatamente Ananus con Joshua ben Dam­neo (o Damnaios) (63 d.C.).

Albino fu persona particolarmente venale e corrotta, ma il suo successore, il procuratore Gessio Floro (64-66 d.C.), fu peggio. Costui infatti era particolarmente avido (metteva mano al tesoro del Tempio) e infliggeva ingiusti castighi, manifestando apertamente il proprio disprezzo per il popolo ebraico: p. es. non si accontentava di sedare le rivolte ma dava anche ordine alle truppe di saccheggiare le città. Fu lui, dopo essere stato costretto a ritirarsi da Gerusalem­me, a riferire a Cestio Gallo, legato di Siria, che la Giudea era in ri­volta.

In effetti Eleazar, comandante del Tempio e figlio del sommo sacerdote Ananus, con alcuni seguaci zeloti che si opponevano a Roma e ai collaborazionisti giudei, persuase i sacerdoti sadducei, nonostante l’opposizione dell’alto clero, a interrompere il sacrificio quotidiano offerto a favore dell’imperatore e del popolo romano, che si svolgeva presso il Tempio di Gerusalemme. Era non solo una rot­tura tra alto e basso clero, ma anche una provocazione esplicita nei confronti di Roma.

Gli zeloti arrivarono persino a distruggere la casa del sommo sacerdote Ananias e i palazzi dei dinasti erodiani Agrippa e Bereni­ce, e a incendiare gli archivi pubblici per impedire il recupero dei de­biti (di qui il loro successo presso le componenti rurali). Occuparono anche la fortezza Antonia.

Nell’estate del 66 d.C. registriamo anche l’attacco zelota alla guarnigione romana della fortezza di Masada, presso il Mar Morto, che viene occupata dal partito degli zeloti capeggiato da Menahem, un figlio di Giuda il Galileo, per ricavare armi in abbondanza e per di­fendersi in una roccaforte ben costruita.

Menahem arma un suo esercito e partendo da Masada mar­cia verso Gerusalemme, intenzionato a diventare capo dello zeloti­smo: al suo arrivo, gli zeloti costrinsero addirittura le truppe di Agrip­pa II ad arrendersi, mentre alla guarnigione romana non restava che rifugiarsi nelle tre torri erodiane. Il sommo sacerdote Ananias e suo fratello Ezekias furono giustiziati. Ma Menhaem entrò in conflitto con i rivoluzionari di Eleazar, che, non volendo riconoscerlo come «mes­sia galileo», lo uccisero a tradimento. I seguaci di Menhaem tornarono a Masada, dove elessero loro capo Eleazar ben Jair, pa­rente di Menhaem. Intanto Eleazar massacrava gli ultimi romani ri­masti in città.

Al sentire che a Gerusalemme non esisteva più alcuna guar­nigione romana, scoppiarono dei pogrom antisemiti a Cesarea, Fila­delfia, Gerasa, Pella, Gadara, Tolemaide, Gaza e in molte altre città del Vicino Oriente. Così nell’ottobre-novembre del 66 d.C. Gerusa­lemme e tutta la Palestina erano in rivolta. Il legato della Siria Cestio Gallio, su richiesta di Gessio Floro, entrò in Palestina con la XII Le­gione, arricchita anche da altri reparti di rinforzo, per normalizzare la situazione.

Partito da Antiochia con le sue truppe, Gallio distrugge e saccheggia alcune città della Galilea e della Samaria, incontrando scarsa resistenza, infine arriva ad assediare Gerusalemme. Qui tut­tavia indugia, temendo di non avere forze sufficienti per tenere in mano un’intera città; pur essendo già riuscito ad aprire una breccia nelle mura del Tempio, ordina ai suoi soldati di ritirarsi sul monte Scopus e poi d’interrompere l’assedio. La cosa lascia stupiti gli zelo­ti, che però ne approfittano subito, inseguendo la legione in ritirata e distruggendone totalmente la retroguardia.

Gerusalemme rimane completamente in mano dei giudei, che eleggono Giuseppe ben Gorion e il sommo sacerdote Ananus comandanti supremi della città liberata dai romani, con l’incarico speciale di organizzare i lavori per l’innalzamento delle mura più esterne.

Con la disfatta della XII Legione anche il resto della Palesti­na tornava in mano dei rivoltosi; vengono eletti dal Sinedrio vari capi che presidiano tutte le maggiori città: proprio in questo periodo Giu­seppe Flavio viene inviato a governare la Galilea, mentre Giovanni Zebedeo, con la sua Apocalisse, chiede ai giudeo-cristiani della dia­spora di appoggiare la rivolta con tutte le loro forze.

Intanto a Roma l’imperatore Nerone (nel 67 d.C.) sostituisce il legato di Siria, Cestio Gallio, col generale veterano Vespasiano e lo incarica, coadiuvato da Tito, figlio di Vespasiano, di disperdere i ri­belli. Il generale viene inviato ad Antiochia, la capitale della Siria, per assumere il comando delle legioni V e X. Nel frattempo Tito viene in­viato ad Alessandria per condurre la XV legione dall’Egitto alla Siria e unire le sue forze a quelle del padre: in tutto tre legioni, un certo numero di coorti ausiliarie, truppe fornite da re locali, amici dei roma­ni, per un totale di circa sessantamila uomini.

L’attacco alla Palestina avviene da nord, come già aveva tentato Cestio Gallio. Le truppe romane prima danno man forte alla città di Sepphoris, la più grande della Galilea, che era rimasta fedele a Roma. Poi attaccano tutte le altre città della Galilea in mano ai ri­belli giudei, bruciando ogni cosa, trucidando tutti i giovani e riducen­do gli altri in schiavitù. Giuseppe Flavio, dopo un tentativo di resi­stenza nella città di Jotapata, è costretto a fuggire e infine si conse­gna ai romani in cambio della vita e della promessa di aiutarli contro gli zeloti.

Mentre Vespasiano si assicura, non senza qualche rovescio di entità limitata, il controllo delle città della Galilea, a Gerusalemme il partito degli zeloti, appoggiati dagli Idumei, mette a morte molte personalità influenti della città, accusate di collaborare coi romani (il tradimento di Flavio aveva avuto un certo peso su queste accuse): anche il sommo sacerdote Ananus, che si era opposto agli eccessi dell’estremismo zelota, viene giustiziato dai rivoltosi. Intanto la co­munità monastica di Qûmran, presso il Mar Morto, viene completa­mente distrutta dai romani nel 68 d.C. Di essa si ritroverà la bibliote­ca solo nel 1947.

Nel corso di questi eventi e mentre Vespasiano si preparava a marciare per assediare Gerusalemme, giunse notizia che a Roma Nerone era morto e Galba gli era succeduto. Ma dopo circa sette mesi soltanto, Galba venne ucciso e salì al trono il suo rivale Ottone. Dopo poco tempo Vitellio, che era stato legato della provincia di Si­ria, s’impadronì del potere a Roma e la situazione divenne caotica. Di questa situazione gli ebrei non seppero approfittare per stringere alleanze con forze straniere.

Nel luglio del 69 d.C. Vespasiano viene nominato imperatore e quindi ritorna a Roma per assumere la carica, sicché le operazioni militari rimangono sotto il comando del figlio Tito. Il 69 d.C. passò alla storia come l’anno dei quattro imperatori: Galba, Ottone, Vitellio e, infine, Vespasiano, che prevalse sugli altri.

Tito raccoglie le tre legioni precedentemente comandate dal padre, aggiunge a queste la ricomposta XII Legione e, attraversando la Samaria, raggiunge abbastanza facilmente la zona di Gerusalem­me. All’interno della città il potere è detenuto da almeno tre capi ze­loti: Giovanni, figlio di Levi, detto anche Giovanni di Gischala, un ga­lileo ch’era fuggito dalla sua terra al tempo della conquista di Vespa­siano: ora governava il centro della città; Simone, figlio di Ghiora, che presidiava la cinta esterna e infine Eleazar, che gestiva il Tem­pio.

All’inizio la scarsità di viveri fece nascere alcune contese tra i vari partiti. Giovanni, fingendo di offrire un sacrificio, mandò uomini a massacrare Eleazar e i suoi, impadronendosi così del Tempio. La città si divise allora in due fazioni.

Gerusalemme a quel tempo aveva ben tre cinta di mura che erano state rinforzate e ulteriormente protette durante i mesi in cui i giudei avevano controllato indisturbati la città: non sarebbe stato fa­cile conquistarla. Intanto Giuseppe Flavio, che si trovava al seguito dell’esercito di Tito, teneva discorsi vicino alle mura della città per convincere i suoi connazionali ad arrendersi e a disertare dalla guer­ra, voluta, secondo lui, dal partito estremista degli zeloti.

I romani, forti della loro esperienza di assedio delle città, im­pedirono agli abitanti di fuggire e li costrinsero alla resa per fame. Giovanni di Gischala venne catturato e imprigionato a vita; Simone figlio di Ghiora, un altro capo zelota, sarà giustiziato durante le cele­brazioni della vittoria sui giudei. Dopo il Tempio, anche il resto della città di Gerusalemme venne abbondantemente distrutto e dato alle fiamme: le mura della città furono completamente rase al suolo tran­ne alcune torri strategiche. I morti furono centinaia di migliaia: soltan­to i prigionieri portati a Roma furono 97.000. Giuseppe Flavio parla addirittura di 1,1 milioni di morti, su una popolazione complessiva di circa 2,5 milioni. Tacito sostiene che i morti a Gerusalemme furono circa 600.000.

Chi descrisse con dovizia di particolari tutte queste cose fu Giuseppe Flavio, il quale però non fa mai alcun riferimento al movi­mento nazareno o cristiano. Anzi nei suoi testi tutti i riferimenti al Cri­sto o ai cristiani sono chiaramente interpolati, per cui essi non hanno alcun valore per riuscire a capire il contenuto politico del messaggio del Nazareno e dei suoi seguaci, né il ruolo che i cristiani ebbero nel corso della guerra giudaica. Si può soltanto presumere che, proprio in forza di quelle manomissioni, il messaggio del Cristo non era af­fatto di tipo etico-religioso come la chiesa cristiana ha sempre voluto far credere, a partire dalle tesi petro-paoline.

Non è infatti da escludere che Flavio vedesse i cristiani della prima ora in cattiva luce, proprio in quanto all’interno del movimento nazareno vi erano sicuramente degli elementi provenienti dall’area zelota. Sicché le interpolazioni cristiane nei suoi scritti possono an­che essere intese nel senso che Flavio parla bene non del «Gesù storico» ma del «Cristo della fede», proprio perché nelle parti omes­se dai cristiani ne parlava politicamente male.

È interessante tuttavia osservare che, secondo la tradiziona­le storia della Chiesa, durante la guerra del 66-74 i cristiani fuggiro­no a Pella, oltre il Giordano, evitando così di compromettersi con la rivolta. Come noto i Sinottici (Mc 13,1-36; Mt 24,1-51; Lc 21,5-28), scritti dopo il 70, contengono riferimenti alla distruzione del Tempio e alla guerra giudaica, fatti passare come eventi profetizzati dal Cristo. In ogni caso la comunità cristiana di Gerusalemme scomparve defi­nitivamente dopo il 70 e nessuno dei suoi documenti ci è stato con­servato (le lettere di Paolo, pur essendo state scritte prima, non con­tengono alcun riferimento alla storicità del Cristo e del movimento nazareno).

Negli anni successivi alla distruzione del Tempio, fino al 74 d.C. le operazioni di rastrellamento e di distruzione dei centri di resi­stenza dei ribelli continuarono con l’assedio e l’assalto alle fortezze di Masada, Macheronte, Herodium… Erano infatti rimaste attive delle roccaforti o delle fortezze in mano ai giudei. Uno degli ultimi episodi della guerra giudaica fu l’assedio e la conquista della fortezza di Ma­sada, avvenuto verso il 74 dopo Cristo. Quando i romani riuscirono a prendere e ad entrare nella cittadella fortificata, trovarono che i sol­dati ebrei avevano ucciso tutte le donne e i bambini e si erano suici­dati tutti quanti per non subire l’onta di cadere nelle mani del nemico (i morti furono 960). Gli ultimi zeloti rifugiatisi in Egitto furono stermi­nati.

Al tempo di Traiano, tra il 115 e il 117 d.C., si ebbe una se­conda rivolta dei giudei, questa volta della diaspora. La repressione romana fu violenta e secondo le cronache provocò centinaia di mi­gliaia di morti. Eusebio riporta anche che a Cirene il leader locale Andrea (o Lukuas) venne acclamato come Messia dalla popolazio­ne.

Una ribellione dei giudei ancora più grave ebbe luogo nel periodo 132-135 d.C., al tempo in cui l’imperatore Adriano aveva de­ciso di intraprendere una politica di massiccia ellenizzazione e roma­nizzazione della Palestina, che culminò con due provvedimenti gra­vissimi per i giudei: la proibizione della circoncisione sia ai pagani che ai giudei e la decisione di ricostruire la città santa di Gerusalem­me col nome di Aelia Capitolina.

Scoppiò così una guerra tra giudei e romani, l’ultimo grande conflitto che richiamava la grande aspettativa messianica giudaica. Capo della rivolta anti-romana questa volta fu Simon bar Koseba, un leader che il rabbino Aquiba, un esponente molto importante dell’e­braismo di quel tempo, aveva addirittura riconosciuto come Messia. Simon bar Koseba era chiamato anche Simon bar Kokhba, un nome di battaglia messianico che significava «figlio della stella», secondo la profezia di Nm 24,17.

Dopo un anno dall’inizio della rivolta l’esercito giudaico ave­va completamente annientato almeno una legione romana, forse due. In Palestina non c’erano più truppe romane, Gerusalemme era stata conquistata ed era stata insediata un’amministrazione ebraica. La rivolta arrivò a un passo dal successo e fallì principalmente per­ché a bar Kokhba vennero meno i suoi alleati.

Secondo un suo disegno grandioso, le truppe avrebbero do­vuto ricevere il sostegno di forze provenienti dalla Persia, dove risie­deva un gran numero di ebrei che godevano del favore della casa regnante. Ma proprio nel momento in cui Simon bar Kokhba aveva più bisogno del loro aiuto, la Persia subì l’invasione di tribù bellicose scese dalle montagne del nord, che richiese l’intervento dei soldati persiani e lasciò Simon privo dell’aiuto sperato.

Intanto in Siria, fuori dei confini della Palestina, i romani si riorganizzavano sotto la guida dell’imperatore Adriano, che aveva come comandante in seconda Giulio Severo, in precedenza abile governatore della Britannia. L’esercito romano composto di dodici le­gioni, per un totale di circa ottantamila soldati, invase di nuovo la Pa­lestina e con una tattica a tenaglia costrinse bar Kokhba a rifugiarsi a Beitar, il suo quartier generale, a pochi chilometri da Gerusalem­me (135 d.C.).

La seconda rivolta giudaica fu così ancora una volta repres­sa nel sangue, Gerusalemme, già abbondantemente distrutta al tempo della prima guerra giudaica, venne completamente spianata e divenne colonia romana col nome di Aelia Capitolina. Agli ebrei fu persino proibito di entrare nella nuova città, ricostruita completamen­te secondo il modello greco, e nel luogo dove sorgeva l’antico Tem­pio, distrutto dalle truppe di Tito e mai più ricostruito, venne eretto un Tempio in onore di Giove.

La guerra del 132-135 d.C. segnò la fine delle speranze messianiche del giudaismo e la scomparsa di tutta la tradizione apo­calittica giudaica. Da quel momento l’ebraismo verrà a coincidere con il rabbinismo di tradizione farisaica, che sostanzialmente è rima­sto fino ad oggi.

Note

1 Archelao aveva an­che permesso di ricostruire completamente l’insediamento esseno del Mar Morto, distrutto da un terremoto nel 31 a.C., e che costituirà una delle basi zelote al tempo della guerra giudaica.

2 Da notare che i sommi sacerdoti, pur essendo nominati, a partire dal regno di Agrippa I, dai dinasti erodiani e non più dai romani, avevano perso qualunque stima da parte della popo­lazione ebraica, proprio perché non erano disposti a un’insurrezione armata contro Roma.