Grandezza e limiti di Samuel Brandon

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Samuel Brandon è stato uno degli esegeti che meglio di chiunque altro s’è avvicinato alla comprensione del lato politico-ri­voluzionario del vangelo di Cristo (vangelo che, beninteso, non coincide certamente coi vangeli canonici e ancor meno con quelli apocrifi). La sua opera, Gesù e gli Zeloti, pur scritta nel 1967 (pub­blicata in Italia nel 1983 dalla Rizzoli) resta assolutamente fonda­mentale per poter comprendere come uscire dalle secche dell’esegesi confessionale. Essa anticipò il meglio dei teologi della liberazione e dei cristiani per il socialismo.

Brandon riconosce i suoi debiti nei confronti di Reimarus, R. Eisler, E. Stauffer e soprattutto M. Hengel, per la sua opera sugli Ze­loti; e, per quanto anche Kautsky avesse scritto un’opera di notevole valore storico sul cristianesimo primitivo, le analisi di Brandon si leggono in maniera più suggestiva, anche perché ha un’ottima cono­scenza di Giuseppe Flavio.

Brandon è stato uno di quegli esegeti ad aver capito perfetta­mente che la predicazione del Cristo non solo non aveva nulla a che fare con quella di Paolo di Tarso (il vero fondatore del cristianesi­mo), ma non trovava neppure la minima rispondenza nel primo vangelo che su di lui era stato scritto: quello di Marco, discepolo di Pietro.

Dopo essersi concentrato enormemente su questo vangelo, l’esegeta anglicano arrivò a dire ch’esso era politicamente tendenzio­so, in quanto, pur di far apparire al lettore pagano un Cristo politica­mente inoffensivo, si sentì indotto a fare professione di antisemiti­smo, scaricando sulla sola classe sacerdotale giudaica il peso della crocifissione di Gesù.

Brandon non ebbe dubbi nel sostenere che quella esecuzione capitale fu dettata da motivazioni che non erano solo “religiose” (e quindi spiacevoli per i sommi sacerdoti), ma anche strettamente “po­litiche”, invise a un tutore dell’ordine pubblico come il prefetto Pon­zio Pilato. Cristo era stato giustiziato perché “sedizioso”, sovversivo e, in questo, egli assomigliava straordinariamente ai patrioti del par­tito zelota, principali protagonisti della guerra giudaica trent’anni dopo la morte di Gesù, fino al suicidio di massa nella fortezza di Masada.

Un grave errore compiuto da Brandon (ma considerando ch’era un sacerdote possiamo perdonarglielo molto facilmente) è sta­to quello di credere che il Cristo voleva realizzare in Palestina una sorta di “regno di dio”, proprio come gli zeloti.

In realtà la più recente esegesi laica è arrivata alla conclusio­ne che Gesù non solo non era un “cristiano”, ma non era neppure un “ebreo osservante” (a differenza di quanto sostengono i coniugi Pe­sce-Destro), quindi è da escludere che volesse fare un’insurrezione armata che avesse una connotazione religiosa. Gesù non rispettava il sabato, le regole alimentari, non frequentava il Tempio ma pubblica­ni e peccatori, e dalle sinagoghe veniva facilmente espulso. Non lo si vede mai pregare o istituire dei sacramenti, né faceva guari­gioni appellandosi a forze che non fossero umane (ammesso e non concesso che ne abbia mai fatte). Insomma, tutto quanto lo fa apparire come un dio va considerato una mistificazione.

Se il vangelo manipolato di Giovanni viene letto tra le righe, si scopre addirittura che Gesù viene giudicato “empio” agli occhi dei giudei non tanto perché si dichiarava “figlio di dio” in via esclusi­va, quanto perché si professava “ateo”, soprattutto quando diceva che “tutti gli uo­mini sono dèi” (Gv 10,34), nessuno escluso.

L’errore fondamentale di Brandon è stato quello di non acco­gliere la versione cronologica dei fatti che offre il quarto vangelo. Se l’avesse fatto si sarebbe accorto che l’epurazione del Tempio, all’ini­zio dell’attività politica del Cristo, segna la rottura definitiva con la politica religiosa dei sommi sacerdoti e del loro partito sadduceo, ma anche con l’idea che si potesse superare la loro vergognosa corruzio­ne attraverso semplici riforme religiose (come p.es. quella del Batti­sta) o confidando nelle antiche tradizioni ebraiche (come volevano i farisei).

Brandon dà per scontato che Gesù fosse uno zelota che vo­lesse compiere un’insurrezione politico-religiosa (in quanto per gli ebrei di allora non si faceva differenza tra politica e religione). In realtà Cristo voleva compiere una rivoluzione nazionale di tutta la Palestina e non galilaica o giudaica, perché sapeva che in caso con­trario i romani avrebbero vinto. Ma per farne una “nazionale” dove­va necessariamente soprassedere alle differenze religiose che divide­vano etnie e tribù, ovvero chiedere che si rinunciasse ai primati stori­ci che ogni nazione (specie quella giudaica) rivendicava. Per supera­re gli odi etnico-tribali Gesù predicò la libertà di coscienza in mate­ria di fede religiosa, al fine di costruire un regno che non fosse anzi­tutto caratterizzato religiosamente. Lo attesta, in maniera inequivocabile, l’incontro coi samaritani.

Ma forse l’errore più grave di Brandon sta nel fatto ch’egli non credeva possibile che una minuscola nazione come Israele avrebbe potuto sfidare con successo la potenza di un grande impero come quello romano, che s’era già imposto vittoriosamente su altri popoli, assai più forti e numerica­mente più consistenti degli ebrei. Su questo la pensava proprio come Giuseppe Flavio e i sommi sacerdoti, che pur critica duramente.

D’altra parte anche Kautsky, nella sua Origine del cristiane­simo (ed. Samonà e Savelli, Roma 1970), la pensa alla stessa ma­niera. A questo punto però ci si potrebbe chiedere: perché il Vietnam sì e la Palestina no? Davvero Israele non aveva alcuna possibilità di non farsi dominare da Roma? Dobbiamo quindi credere che tutti i tentativi insurrezionali, incluso quello del Cristo, erano fatalmente destinati alla sconfitta? I romani riuscirono forse a sottomettere i germani al di là del Reno?

La storia dimostra, in realtà, che esistono alcune condizioni favorevoli all’insurrezione armata contro l’invasore, che si possono riassumere nelle seguenti:

  1. nel momento dello scontro decisivo occorre far valere aspet­ti di natura più tattica e strategica, politica e organizzativa, che non di natura ideologica: le questioni di principio, che inevitabilmente tendono più a dividere che a unire, vanno ri­mandate a momenti successivi, quando la pace è assicura­ta;

  2. è necessario cercare l’appoggio di alleati contro il nemico comune, evitando di porre condizioni troppo onerose per la realizzazione delle intese;

  3. una guerra difensiva è sempre meno difficile da combattere di una guerra offensiva, ed è anche meno costosa;

  4. una guerra condotta sul proprio territorio è sempre più facile da gestire di una guerra su territori altrui;

  5. contro un nemico più forte sul piano tecnico e militare non c’è possibilità di vittoria senza una guerra di popolo;

  6. nel corso della guerra e finché essa dura la direzione degli eventi deve essere centralizzata.

Si può semmai discutere se non fosse il caso di liberare pri­ma la Galilea e poi la Giudea e tutta la Palestina, visto che in Galilea il movimento di resistenza armato aveva radici più solide. La Galilea aveva già tentato di insorgere contro Roma in oc­casione del censimento, ma senza l’appoggio della Giudea tutti i suoi tentativi erano falliti. Quando il movimento nazareno prende le mosse in senso rivoluzionario, quello zelota era già uscito sconfitto dallo scontro coi romani, e trent’anni dopo la crocifissione del messia sarà di nuovo il partito zelota a scatenare la guerra contro Roma, partendo questa volta non dalla Galilea ma dalla stessa Giudea, an­cora una volta però compiendo gli stessi errori di massimalismo e di settarismo di mezzo secolo prima.

La scelta del messia Gesù di partire da Gerusalemme era strategica per varie ragioni:

  1. la capitale era riconosciuta da tutta la Palestina, anche se i samaritani non la frequentavano per il culto nel Tempio;

  2. durante la pasqua era caratterizzata da un enorme afflusso di persone, su cui si sarebbe potuto contare nel caso di un’occupazione della Fortezza Antonia, ove era acquartiera­ta la coorte romana;

  3. senza una popolazione del genere sarebbe stato impos­sibile resistere all’assedio delle legioni romane;

  4. la città aveva mura imponenti;

  5. al suo interno sarebbe stato molto facile controllare l’aristo­crazia sacerdotale che teneva rapporti di collaborazione coi romani, e quindi estrometterla da qualunque tipo di gestione degli affari pubblici e soprattutto impedirle un controllo spre­giudicato delle forze politiche presenti nel Sinedrio;

  6. se Gerusalemme avesse dimostrato di saper resistere ai ro­mani, non solo tutta la Palestina sarebbe insorta, ma anche tutto il Medio Oriente, e se questo fosse riuscito nell’intento, altre regioni dell’impero si sarebbero ribellate: germaniche, danubiane, sarmate… L’impero aveva già raggiunto la sua massima estensione: poteva soltanto essere progressiva­mente ridimensionato. La sconfitta di Israele sarà invece l’ul­tima grave disfatta di una nazione occupata da Roma, che permetterà all’impero di sopravvivere per altri tre secoli.

Brandon infine non è mai arrivato a dire che, nel mentre operava per la liberazione della Palestina dalla dominazione straniera, Gesù voleva realizzare anche la democrazia e un socialismo analogo a quello che in Palestina si viveva prima dello sviluppo dello schiavi­smo. Gesù voleva ripetere l’impresa dei Maccabei, evitando però il con­fessionismo statale e superando nettamente il potere dell’aristo­crazia sacerdotale: cosa che si sarebbe potuta fare dando alla società civile la possibilità di tornare alle proprie origini collettivistiche.

Secondo Brandon i cristiani, durante la guerra giudaica, si unirono al movimento zelota e perirono tutti e tutti i loro archivi an­darono dispersi. È difficile tuttavia pensare che i cristiani seguaci di Pietro e di Paolo si siano comportati così. Perché mai avrebbero do­vuto prendere le armi per seguire un messia diverso da quello che già avevano avuto, il cui ritorno stavano attendendo in maniera del tutto pacifica?

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