Che Giovanni e non Pietro dovesse essere il principale prosecutore del messaggio politico-rivoluzionario del Cristo, è ben attestato non solo nel IV vangelo (ogniqualvolta p. es. si parla di “discepolo prediletto” [sulla cui identità la censura della tradizione petro-paolina ha posto il veto], o quando viene scritto che Pietro non sarebbe stato più in grado di cingersi la veste da solo e che sarebbe stato condotto dove non voleva [leggi: da Paolo], o quando viene detto, nello stesso episodio suddetto, che la testimonianza di Giovanni sarebbe durata più a lungo di quella di Pietro, oppure quando di fronte alla sindone Giovanni diede un’interpretazione diversa [corpo stranamente scomparso] da quella di Pietro [corpo risorto]), ma è ben attestato anche nell’Apocalisse.
Sin dall’esordio infatti, diversamente da come agirà nel vangelo, l’apostolo cita subito se stesso per nome, senza neppure aver bisogno di specificare di chi era figlio o da dove proveniva: gli è sufficiente dire che “si trovava nell’isola chiamata Patmos, a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù” (1,9), cioè era stato esiliato in un’isola del gruppo delle Sporadi a seguito di una persecuzione anticristiana. La parola di “Dio” è la stessa di “Gesù”.
Ora, poiché gli esegeti ritengono l’Apocalisse uno dei testi più antichi del Nuovo Testamento, è giocoforza pensare che il ruolo da protagonista esercitato da Pietro nel vangelo di Marco e nella prima parte degli Atti degli apostoli, va considerato come un fatto o posteriore o parallelo a quello che volle esercitare Giovanni, e anche come un fatto che solo a partire da un certo momento risultò maggiormente condiviso dalla comunità cristiana.
Stando infatti agli Atti, Giovanni, appena Pietro inizia a predicare, o non appare quasi per niente (nel senso che la sua presenza è poco significativa, soprattutto perché non lo si sente parlare), oppure è presente in racconti di tipo mitologici, quello in cui p. es. va a pregare con Pietro nel Tempio o quello in cui Pietro compie azioni miracolose. È quindi evidente che Giovanni scompare di scena proprio nel momento in cui Pietro inizia a parlare di “morte necessaria” del Cristo, cioè di rinuncia a qualunque insurrezione nazionale. Il successore di Pietro infatti sarà Giacomo tra gli ebrei e Paolo tra i pagani.
Certo, con l’Apocalisse non abbiamo a che fare con un testo intonso, originario, privo di rimaneggiamenti e manipolazioni redazionali aventi come punto di riferimento il revisionismo petro-paolino (probabilmente dei 22 capitoli una prima redazione, del 68-69, ne prevedeva solo 18, mentre la seconda, rappresentata dai primi tre capitoli e dall’ultimo, fu aggiunta nel 95-96).
Da questo punto di vista è curioso come mentre per tutti i testi del Nuovo Testamento gli esegeti cattolici si sforzino di anticipare il più possibile la loro stesura, nel tentativo di dimostrare come, sin dall’inizio, il Cristo non abbia mai cercato di porsi in maniera politica, con l’Apocalisse invece si fa di tutto per posticiparne l’edizione, che in nessun caso – si dice – potrebbe essere inferiore a 30 anni dalla morte del Cristo (si parte dalla data della morte di Nerone, 68 d.C., per i primi undici capitoli, alla data della morte dell’imperatore Domiziano, 96, per i restanti). Tuttavia non pochi autori tendono ad anticiparne la stesura al periodo dell’imperatore Claudio, morto nel 54.
Ovviamente più la data è vicina alla morte di Cristo, e più importanza ha l’Apocalisse e quindi Giovanni rispetto a Pietro e soprattutto rispetto a Paolo e alle sue Lettere. P. es. se si accetta la data del 54, Efeso sarebbe stata evangelizzata prima da Giovanni, poi da Paolo.
In effetti è abbastanza difficile credere che Giovanni potesse rivolgersi alle comunità di Efeso e di Laodicea, con toni così duri (della seconda scriverà addirittura che il Cristo stava per vomitarla a causa della sua indifferenza), se non fossero state fondate da lui stesso. A meno che non si voglia pensare che in realtà le comunità “cristiane” fondate dagli apostoli fossero due: una di Giovanni, più vicina ai giudei, e l’altra di Paolo, decisamente filopagana. Il che spiegherebbe il motivo per cui Giovanni elogi la comunità di Efeso per non essersi lasciata sedurre da apostoli “bugiardi” e per detestare la setta dei Nicolaiti (probabilmente degli ellenici che avevano accettato le tesi di Paolo, applicandole secondo una libertà non apprezzata in ambienti ebraici).
La cosa che più fa pensare che il testo sia davvero antico, forse il più antico di tutto il Nuovo Testamento, è che il suo autore resta più che mai convinto che l’insurrezione antiromana non solo è imminente ma addirittura destinata alla vittoria. È forse credibile che l’apostolo Giovanni nutrisse questa speranza dopo ancora 30 anni dalla morte del Cristo? Non lo sappiamo. È però verosimile ch’egli abbia scritto qualcosa di molto importante alla vigilia della grande guerra antiromana scoppiata nel 66 d.C. e conclusasi tragicamente nel 70.
La persecuzione ch’egli ha sofferto, in questo periodo, non poteva certo essere quella di Domiziano (81-96), come in genere gli esegeti cattolici sostengono, ma probabilmente quella di Nerone, a meno che il testo non vada collocato nel periodo della guerra giudaica immediatamente successivo alla catastrofe del 70: in tal caso la persecuzione potrebbe essere stata quella di Tito (79-81).